Generazioni che non si capiscono, leader che non guidano più, confini che dividono: come ritrovare il senso del lavorare insieme.
Tre riflessioni per chi affronta il futuro tra fratture, complessità e voglia di ricominciare a collaborare davvero.
Non molliamo.
Viviamo tempi in cui il passaggio di testimone tra generazioni rischia di diventare un passaggio a vuoto. Nelle aziende, nei team, persino nelle famiglie professionali, si moltiplicano gli equivoci: chi entra guarda avanti e vede solo accelerazione; chi c'è da tempo guarda indietro e sente di perdere senso.
Come possiamo allora ritrovare spazi di contatto? Come non mollare?
Questa newsletter nasce per esplorare questo tema attraverso esempi concreti, strumenti replicabili e alcune letture che meritano attenzione. Così da non mollare e perdere la fiducia nell’umanità di tutti noi.
INDICE
1. La grande separazione nelle imprese: come ricucire il dialogo tra generazioni
Strumenti concreti per trasformare il conflitto generazionale in risorsa creativa. Dall’architettura dei team temporanei ai laboratori di traduzione culturale.
2. Potere e complessità: conversazione con Alberto Felice De Toni
Cosa significa oggi "avere potere"? Come si guida (o si segue) in un sistema che cambia di continuo? Un’intervista che mette in discussione molti dei nostri modelli di leadership.
3. Collaborare oltre i confini: limen e limes nelle organizzazioni
Ispirazioni antropologiche e manageriali per attraversare soglie e confini, senza perdersi. Per chi sta affrontando cambiamenti profondi o si trova in terre di mezzo.
👉 Perché leggerla (e condividerla)?
Questi spunti non sono solo teoria: sono strumenti pratici per rendere il nostro lavoro e la nostra vita meno isolati, più efficaci e più umani.
Leggi, applica e, se trovi qualcosa di utile, condividilo con chi ne ha bisogno. Perché, alla fine, nessuno costruisce qualcosa di grande da solo.
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“La Grande Separazione”: se le generazioni non dialogano più che si fa? Qualche spunto dal mondo delle piccole imprese che devono fare tanto con poco.
Nel suo profetico libro "Modernità liquida" (2000), Zygmunt Bauman descriveva come i legami sociali fossero diventati più fragili e temporanei. Questo fenomeno si manifesta oggi, nell'era post-pandemica e dell'intelligenza artificiale, in modo ancora più accentuato nei rapporti intergenerazionali aziendali, dove differenti gruppi d'età abitano universi digitali e valoriali quasi paralleli.
Questa frattura non è solo un disagio sociale, ma un'autentica perdita di valore organizzativo.
Ecco alcuni strumenti concreti che ho osservato qui e lì in aziende di piccole dimensioni, strumenti tutto sommato semplici ma che poi la teoria conferma utili per trasformare questa tensione in creatività:
Architettura dei team temporanei.
Identifica un problema aziendale circoscritto (miglioramento di un processo, sviluppo di una nuova feature, risoluzione di un problema di comunicazione). Seleziona 5-7 persone di età diverse assicurandoti di avere almeno un rappresentante per generazione. Assegna un obiettivo chiaro e una scadenza di 6 settimane. La regola d'oro: ogni decisione deve ricevere input da tutte le generazioni rappresentate.
Knowledge transfer a due vie.
Crea una lista delle 10 competenze più critiche in azienda. Per ciascuna, identifica chi la possiede a livello avanzato. Organizza sessioni settimanali di un'ora dove questa persona mostra concretamente come applica quella competenza. Registra queste sessioni. Imposta una verifica pratica dopo un mese: il "mentee" deve dimostrare di padroneggiare quella competenza in un caso reale.
Laboratori di traduzione culturale.
Organizza un workshop di mezza giornata. Prima attività: ogni generazione scrive su post-it i 5 comportamenti che trovano più irritanti nelle altre generazioni. Seconda attività: ogni gruppo spiega i propri termini che crede vengano fraintesi. Terza attività: lavoro in coppie intergenerazionali per riscrivere una comunicazione aziendale recente che sia comprensibile per tutte le generazioni.
Responsabilità diffusa dell'integrazione.
Inserisci nella valutazione annuale dei manager una metrica specifica: "capacità di facilitare la collaborazione intergenerazionale". All'inizio di ogni riunione importante, dedica 5 minuti alla domanda: "Abbiamo considerato le prospettive di tutte le generazioni presenti in azienda?". Crea un sistema di riconoscimento periodico per i team che mostrano la migliore collaborazione tra diverse fasce d'età.
Come scriveva Martin Buber è nel vero incontro con l'altro che troviamo significato. Una visione che, nell'attuale contesto di frammentazione anagrafica , sociale , politica, digitale e lavoro ibrido, risulta sorprendentemente utile e più necessaria che mai nelle nostre organizzazioni.
Il potere non è più dove pensavamo: lezioni dalla complessità con Alberto Felice De Toni.
Sto leggendo "La varietà necessaria del potere", di Alberto Felice De Toni e @Eugenio Bastianon, prefazione del Prof. Rullani Enzo ( e qui mi scende una lacrima ricordando l'esame di geografia economica , che ho adorato e che ho sostenuto con lui nel 1991 ) e man mano che procedo mi è sempre più chiaro che la parola “potere” ha bisogno di essere riabilitata.
Non nel senso di legittimare gli abusi di chi lo esercita con arroganza, ma nel senso di riportarlo alla sua funzione essenziale: far accadere le cose insieme agli altri, dentro contesti complessi.
Oggi il potere non è più solo gerarchia o comando. È rete, è influenza, è capacità di costruire contesti in cui anche chi non comanda formalmente possa contribuire in modo pieno. È ciò che permette alle persone di attivarsi, non di essere controllate. E questo vale tanto per chi guida, quanto per chi segue.
Con questo spirito nasce questa conversazione con Alberto Felice De Toni, persona che stimo profondamente e che ringrazio.
Alberto Felice De Toni è un accademico, manager pubblico e oggi sindaco della città di Udine. Professore ordinario di Ingegneria Economico-Gestionale, ha insegnato all’Università degli Studi di Udine, dove è stato anche rettore. È stato presidente della Fondazione CRUI, direttore scientifico della Scuola Superiore di Amministrazione Pubblica e presidente della Fondazione Friuli e molto altro.
È autore di numerosi saggi dedicati a complessità, potere, leadership e organizzazione, tra cui "La varietà necessaria del potere" Edizioni Guerini . È considerato una delle voci più autorevoli in Italia sul pensiero sistemico applicato alla trasformazione organizzativa e al management.
1. Professore, cos’è davvero il potere in un mondo complesso?
Il potere è sempre stato visto come controllo e autorità, ma nel tuo lavoro emerge una definizione più fluida, legata alle dinamiche di conoscenza e rete. Qual è oggi la definizione più accurata di potere?
Il potere è sempre associato ad un significato negativo. Perché usato dai più forti a spese dei più deboli. Eppure, il potere non è negativo in sé. Ogni organizzazione che vuole ottenere dei buoni risultati ha la necessità che ciascuno dei propri membri eserciti del potere. Non solo le persone ai vertici, ma anche quelle alla base. Tutti devono avere una quota di potere altrimenti l’organizzazione funzionerà a velocità ridotta. Il potere non è un male necessario. È una risorsa critica per l’individuo all’interno di una organizzazione e per la mobilitazione dell’azione collettiva.
Per quanto riguarda la definizione di potere, in letteratura le enunciazioni sono molteplici e risentono fortemente dell’ambito di studio. Mi limito a ricordare il contributo di Foucault che nel suo saggio intitolato “Microfisica del potere”, sostiene che: “Non c’è il potere, ma relazioni di potere che nascono incessantemente come effetto e condizione di altri processi”. E ancora “Il potere si esercita a partire da innumerevoli punti e nel gioco di relazioni disuguali e mobili”. Foucault ci propone in ultima analisi il potere come una sorta di campo relazionale, mai gestito univocamente da qualcuno (la proprietà, il direttore, il generale, il primario, il preside, il vescovo ...), un rapporto che si sviluppa all’interno di complessi e stratificati processi storici.
2. La complessità aiuta o ostacola la collaborazione?
Viviamo in sistemi sempre più interconnessi e imprevedibili. La complessità spinge le persone a collaborare meglio o rischia di generare più conflitti e frammentazione? Come si crea un contesto che sfrutti la complessità a favore della cooperazione?
Per affrontare la complessità, sempre crescente, le organizzazioni devono puntare sull’intelligenza distribuita delle persone e attribuire loro un certo grado di potere, fonte di autonomia. Le persone non sono il punto debole delle organizzazioni, come presuppongono certi approcci manageriali tradizionali, ma rappresentano il vero punto di forza. Sono le persone che fanno la differenza.
Nessuna nuova unità organizzativa, procedura o sistema sarà sufficiente a prevedere tutti i problemi e sarà capace di aiutare le persone a trovare soluzioni e a valutare opportunità. Solo collaboratori autonomi potranno esprimere giudizi, negoziare compromessi, trovare soluzioni creative, interpretare le regole rispettandone lo spirito e non applicandole alla lettera.
Di fronte alla complessità nessuno possiede tutte le risposte. Per questo è necessario che le persone utilizzino la loro intelligenza ed autonomia per cooperare. Le parole chiave sono allora “autonomia” e “cooperazione”. Sono i due binari su cui fa correre il treno dell’organizzazione per attraversare i territori della complessità.
3. Come cambia il ruolo di chi comanda in un sistema complesso?
Se il potere si muove attraverso le reti e la conoscenza, chi è abituato a comandare con metodi tradizionali rischia di perdere efficacia. Come deve cambiare il leader per rimanere rilevante in un sistema non più governabile con regole rigide?
Nei contesti ad elevata complessità il capo opera affinché tutti i propri addetti a regime diventino dei self-leader. Costruisce un contesto di valori condivisi, delinea una visione attorno a cui mobilitare gli sforzi di tutti, fornisce l’energia del cambiamento, trasferisce i contenuti delle tecniche professionali, dà l’esempio. A loro volta gli addetti sviluppano non solo competenze, ma anche auto-motivazione, la quale è alla base dei processi di emergenza dal basso che realizzano l’auto-organizzazione. Il leader non è più quello che conduce a destinazione i propri: ognuno trova la propria strada in una logica di self-leadership. Il leader diventa un costruttore di contesti dove ciascuno a regime diventa leader di se stesso. Il controllo non è più centrale del capo, ma è operato in periferia dagli addetti stessi. Si realizza per il leader il passaggio dal “controllo” al “presidio”. L’organizzazione non è più ad una mentre, ma a molte menti: tutte quelle dei collaboratori. L’efficacia della leadership è dovuta non solo al responsabile, ma a tutto il gruppo.
4. Chi segue come può trovare un ruolo attivo nella complessità?
Non tutti prendono decisioni, molti devono adattarsi alle scelte altrui. Come può chi non ha ruoli di comando evitare di essere schiacciato dalla complessità e trasformarla in un'opportunità per crescere?
Per chi non ha ruoli di comando, operare in contesti complessi è una grande opportunità perché possono aspirare a diventare self-leader. Per gestire la complessità crescente è opportuno puntare sulla partecipazione e sull’assunzione di responsabilità da parte di tutti in una logica di intra-imprenditorialità. In una organizzazione che promuove l’auto-organizzazione il manager passa, a sua volta, da un ruolo riduzionistico ad un ruolo complesso, dalla “pianificazione e controllo” delle attività alla “creazione e presidio” del contesto. Un contesto dove la vera motivazione è l’auto-motivazione, frutto di una visione condivisa, ottenuta con l’esempio del leader che fornisce l’energia del cambiamento. Serve intelligenza distribuita, inter-connessa, auto-motivata e auto-attivata. Al centro non si risolve. Il futuro è nella periferia.
5. Quali scenari di potere e complessità ci aspettano nel futuro?
Crisi economiche, instabilità politica, rivoluzioni tecnologiche: il mondo sta cambiando velocemente. Quali nuove forme di potere emergeranno e come dovranno adattarsi aziende e individui per restare protagonisti?
Un esempio virtuoso di risposta alla complessità ce lo danno le grandi imprese tedesche che attuano il "Mitbestimmung", ovvero la cogestione. Il governo dell’azienda avviene mediante un sistema duale di gestione: il consiglio di direzione e il consiglio di sorveglianza. La corresponsabilità decisionale di proprietà e lavoratori è resa possibile dalla presenza “quasi paritetica” dei rappresentanti di lavoratori nel consiglio di sorveglianza che nomina i componenti del consiglio di direzione e approva il bilancio (funzione in genere riservata all’assemblea dei soci). Il consiglio di sorveglianza “quasi paritetico” tra le due componenti capitale e lavoro, riconosce ai lavoratori un aumento del loro macro-potere e una loro partecipazione alla gestione dell’impresa.
L’equilibrio tra macro-poteri della proprietà (shareholders) e dei lavoratori (stakeholders) favorisce la corresponsabilità la quale consente - sul lungo periodo - una potenziale, consensuale, modifica dei modelli di business volta a garantire migliori risultati in termini di efficienza dinamica. Il raggiungimento di efficienza dinamica consolida e amplifica l’alleanza tra capitale e lavoro, mitigando il loro conflitto strutturale: il salario remunera il lavoro e il profitto remunera il capitale.
Grazie davvero a Alberto Felice De Toni .
Il contributo offerto in questa intervista apre una riflessione necessaria su come potere e complessità si intreccino nelle dinamiche organizzative contemporanee. L' alta variabilità e crescente interdipendenza fanno emergere l'urgenza di rivedere modelli decisionali e strutture di leadership, spostando l’attenzione dal controllo alla creazione di contesti generativi.
Le implicazioni per il lavoro collaborativo sono evidenti: l’efficacia non nasce dalla rigidità, ma dalla capacità di distribuire intelligenza, di sostenere l’autonomia, e di costruire relazioni capaci di tenere insieme ordine e apertura.
Una prospettiva che non semplifica il reale, ma lo rende più leggibile e, soprattutto, più abitabile.
Tre lezioni che ho appreso :
Il potere non è un blocco da esercitare, ma un flusso da distribuire. Quanto più è condiviso, tanto più diventa efficace e generativo.
La complessità non si controlla: si attraversa. Pretendere certezze in un sistema instabile porta solo frustrazione; occorre abbracciare l’incertezza come parte del gioco.
La collaborazione non nasce dalla struttura, ma dal contesto. Solo ambienti costruiti su fiducia, visione e autonomia rendono possibile una vera co-creazione.
DONNE, UOMINI, LEADERSHIP ED EMOZIONI:
QUANDO UNA RICERCA SMENTISCE I PREGIUDIZI (E CI INVITA A RIPENSARE I MODELLI).
COLLABORARE OLTRE I CONFINI: L'ARTE DI ATTRAVERSARE SOGLIE.
Mi è successo tante volte.
Ero davanti alla porta di un cliente importante, mai incontrato prima.
Biglietto da visita in tasca, presentazione pronta.
Eppure esitavo a bussare.
Pietrificato davanti a quella soglia. "Cosa dirò? Come mi vedranno?" mi chiedevo. Non era paura del rifiuto. Era la consapevolezza di stare attraversando un confine invisibile. Un limen.
Ho sentito l'urgenza di esplorare questi temi nei miei libri, "Lavorare è collaborare" e "Guerra o pace".
Non per dare risposte, ma per disegnare una mappa in un territorio che tutti attraversiamo ma pochi riconoscono.
Limen: la soglia che ti trasforma.
Il limen è la soglia. Non un punto, ma uno spazio. Come quella terra di nessuno tra due paesi. Ci entri come una persona e ne esci come un'altra.
Sospeso tra due identità. Vulnerabile. Potente.
Ogni porta un limen da attraversare.
Ogni volta una piccola trasformazione.
In azienda, il limen appare durante le ristrutturazioni, le fusioni, i processi di innovazione. È quel momento in cui i vecchi modelli vanno in frantumi ma i nuovi non sono ancora definiti. È scomodo. È pericoloso. È fertile.
Limes: il confine che separa e unisce.
Il limes è il confine. È la linea rossa che non devi superare. È il muro tra reparti, la barriera tra competenze, la divisione tra "noi" e "loro".
Ma ogni muro ha le sue crepe. Ogni confine è anche un punto di contatto.
Ho visto aziende in cui le divisioni tra reparti erano fortezze impenetrabili. Marketing contro vendite. IT contro amministrazione.
Una guerra interna che consumava più energie della competizione esterna.
Ho visto anche aziende dove quei confini erano ponti. Luoghi di scambio, contaminazione, innovazione.
La differenza? La consapevolezza.
Complessità: aprirsi senza perdersi.
Non sopravvivi chiudendoti. Non sopravvivi aprendoti senza criterio. È la lezione della complessità.
È come con lo smartphone. Non puoi vivere senza, ma se lo tieni sempre acceso, ti consuma. Non è questione di usarlo o non usarlo. È questione di come, quando, perché.
Capaci di separare opportunità e minacce. Ad aprirci al nuovo senza perdere la nostra identità.
Il mio viaggio interiore.
Mi chiedo spesso:
Abito davvero i miei luoghi di transizione o li attraverso di corsa?
I miei confini sono muri o ponti?
So quando aprire e quando chiudere la porta?
Ho il coraggio di guardare l'ignoto negli occhi?
Sto creando spazi dove le persone possono trasformarsi?
Costruisco ponti o scavo fossati?
Sono disposto a mettere in discussione le mie certezze?
Le mie competenze bastano per il viaggio che ho deciso di fare?
E soprattutto: sono consapevole di essere sempre in bilico tra limen e limes?
Non ho tutte le risposte.
Ogni giorno mappo i miei confini e le mie soglie.
Tengo traccia dei miei attraversamenti.
Osservo come mi trasformo.
Conta come navigo il cambiamento.
Siamo tutti viaggiatori tra limen e limes.
Il viaggio è appena iniziato.
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Chi è Giuseppe Stigliano?
CEO per tre aziende internazionali
Professore di Marketing
Autore e keynote speaker
Ha supportato oltre 300 aziende in tutto il mondo
Un esperto di Customer Experience – quella disciplina che studia e ottimizza la percezione che i clienti hanno di un brand, in ogni punto di contatto.
E, soprattutto, è un caro amico.
Grazie Giuseppe!
https://products.giuseppestigliano.com/
Non abbiamo bisogno di muri, ma di ponti navigabili
In tempi di divisioni, il rischio più grande non è il conflitto, ma il silenzio.
Quando le generazioni non si parlano più, quando i ruoli si irrigidiscono, quando i team non si attraversano, perdiamo qualcosa che non possiamo permetterci di perdere: la capacità di fare le cose insieme.
La collaborazione, oggi, è un mestiere di frontiera.
Serve il coraggio di chi si mette in ascolto senza paura di cambiare.
Serve la lucidità di chi non cerca colpevoli, ma spazi di azione condivisa.
Serve, soprattutto, la consapevolezza che nessuna organizzazione, piccola o grande, può fare a meno di questa intelligenza diffusa, intergenerazionale, e profondamente umana.
Spero che questi spunti possano ispirarti.
Come sempre, scrivimi se qualcosa risuona, o se vuoi raccontarmi la tua esperienza.
A presto,
Qualsiasi feedback è apprezzato.
"Quelli che per farsi più amabili affettano un carattere morale diverso dal proprio, errano di gran lunga. Lo sforzo che dopo breve tempo non è possibile a sostenere, che non divenga palese, e l'opposizione del carattere finto al vero, il quale da indi innanzi traspare di continuo, rendono la persona molto più disamabile e più spiacevole ch'ella non sarebbe dimostrando francamente e costantemente l'esser suo.
Qualunque carattere più infelice, ha qualche parte non brutta, la quale, per esser vera, mettendola fuori opportunamente, piacerà molto più, che ogni più bella qualità falsa".
GIACOMO LEOPARDI, Pensieri, 1845, pubblicato postumo.