"Ripensare la collaborazione: competenze, etica e nuove strutture aziendali"
Proviamo a vedere come competenze solide, valori etici condivisi e nuove strutture aziendali possano trasformare la collaborazione sul lavoro. Siamo appena agli inizi di un nuovo mondo del lavoro.
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Walter Mitty: Ehi, conosci il nostro motto?
Ted Hendricks: Life, I’m lovin it.
Walter Mitty: Non è questo. Questo è McDonald's. Questa cosa che fai, Ted, quando entri in un posto e fai fuori la gente, dovresti sapere che quelle persone hanno lavorato duro per costruire questa rivista. Credevano nel motto. E capisco, hai i tuoi ordini di marcia e devi fare quello che devi fare, ma per farlo non devi essere proprio uno stronzo. Scrivilo su una targa e appendila per il tuo prossimo lavoro.
Da : I sogni segreti di Walter Mitty.
Fonte del video : https://vm.tiktok.com/ZNecEy6CX/
Il futuro non è scritto. Il futuro va costruito.
Ciao a tutti, in questa edizione affrontiamo temi che toccano da vicino la nostra quotidianità professionale: ispirati dal libro di Cal Newport, vediamo come sviluppare competenze uniche possa portarci oltre il semplice entusiasmo, costruendo carriere più appaganti; riflettiamo su come valori morali universali possano favorire una cooperazione sincera in azienda, al di là delle singole credenze; esploriamo come l'equità salariale e il benessere dei dipendenti possano essere le fondamenta di una collaborazione efficace, prendendo spunto dal modello innovativo di Adriano Olivetti; discutiamo le sfide che le nuove generazioni incontrano nei ruoli manageriali tradizionali e di idee per evolvere verso una leadership meno gerarchica.
Vi invito a leggere, riflettere e condividere le vostre opinioni. Insieme, possiamo costruire ambienti di lavoro più equi, produttivi e soddisfacenti per tutti. Buona lettura. Qui siamo in 3.000 anime a dimostrare che insieme si può fare ed essere meglio e di più. Prima o poi dovremo fare un incontro dal vivo :).
Meglio che la passione non ti guidi.
Serve la religione per essere una persona morale?
I,WE – Inclusion, Welfare, Environment. La lezione di Olivetti.
Il paradosso del Middle Management: come evolvere insieme.
Meglio che la passione non ti guidi.
“ Così bravo che non potranno ignorarti” di Cal Newport è una sfida a uno dei consigli più radicati: “Segui la tua passione, e tutto il resto arriverà”.
Newport, con un approccio provocatorio e illuminante, ci porta a vedere il mondo del lavoro da una prospettiva nuova.
Non è la passione che deve guidare la carriera, ma la costruzione di competenze solide e rare che ci rendono indispensabili e ci fanno risaltare.
I principi fondamentali del suo approccio sono questi:
1. Superare il mito della passione
Newport smonta il mito della “passione” come guida assoluta. Non è la passione, dice, che ci renderà soddisfatti e motivati nel tempo, ma una serie di competenze e risultati concreti. La passione è spesso il frutto del lavoro ben fatto, non il punto di partenza. Invece di rincorrere continuamente il “lavoro dei sogni”, ci invita a creare valore attraverso l’impegno costante.
2. La mentalità dell’artigiano
Qui Newport introduce una svolta: la “craftsman mindset”, ovvero un atteggiamento in cui non ci chiediamo solo cosa il lavoro può darci, ma cosa possiamo offrire noi. Questa mentalità ci porta a investire nelle nostre capacità, a lavorare per un miglioramento continuo e a creare valore concreto. Solo così, dice Newport, possiamo diventare realmente indispensabili.
3. Costruire capitale di carriera
Il “career capital” è una risorsa preziosa: si tratta delle competenze uniche e difficili da sostituire che ci rendono unici sul mercato. Newport suggerisce di costruire questo capitale come una riserva di valore, permettendoci di accedere a ruoli più appaganti e di ottenere maggiore controllo sul nostro percorso. Con un capitale di carriera solido, possiamo aprirci a nuove opportunità e ottenere quella libertà professionale che molti desiderano.
4. I pilastri della soddisfazione lavorativa
Basandosi sulla teoria dell’autodeterminazione, Newport identifica tre elementi chiave per il benessere nel lavoro:
Autonomia: Avere la possibilità di prendere decisioni e agire con un certo grado di libertà.
Competenza: Sentirsi abili e capaci nel proprio ruolo, con la possibilità di crescere costantemente.
Relazioni: Costruire rapporti significativi e autentici con i colleghi e collaboratori.
Newport sottolinea come, in un ambiente collaborativo, questi tre elementi non solo favoriscono la motivazione personale, ma creano un ambiente di lavoro ricco e stimolante per tutti e non oltre essere più d’accordo 😀.
5. Trovare una missione
Dopo aver costruito il proprio capitale di carriera, Newport invita a trovare una missione. Questo è il punto in cui le competenze incontrano un obiettivo personale più alto, che dia al nostro lavoro un senso e una direzione. Trovare questa missione rende il lavoro più profondo e gratificante, unendo impegno e significato.
Bel libro, che se non cambierà il mondo, diventerà un classico.
Serve la religione per essere una persona morale?
“Collaborazione in azienda: Non serve una religione, servono valori universali”
L’articolo di Harvey Whitehouse su Big Think, “Do you need religion to be a moral person?”, offre spunti preziosi per riflettere sulla collaborazione in azienda e sul ruolo dei principi morali. Whitehouse esplora il legame tra religione e moralità, suggerendo come comportamenti etici e di cooperazione non richiedano necessariamente una fede, ma trovano le loro radici in valori umani universali.
Lo studio di Curry, citato nell’articolo, identifica sette principi universali di cooperazione :
aiutare i familiari,
lealtà al gruppo,
reciprocità,
coraggio,
rispetto per l’autorità,
equità e
protezione della proprietà , presenti in tutte le culture analizzate.
Questi valori, che ci guidano nelle interazioni quotidiane, sono essenziali anche in un contesto aziendale.
Come scrivo in “Lavorare è collaborare”, un ambiente di lavoro che rispetta principi simili e garantisce reciprocità permette a ogni membro di sentirsi parte di una comunità autentica, contribuendo con fiducia perché sa di essere valorizzato e che la ricompensa agli sforzi arriverà senza dubbio.
Applicare questi valori in azienda significa trasformare la collaborazione in una pratica sincera.
La lealtà non è solo lavoro di squadra, ma un impegno concreto verso il gruppo; la reciprocità si manifesta nel rispetto e nella fiducia reciproca, indispensabili per la crescita del team e il coraggio diventa la capacità di esprimere idee senza paura di giudizi, perché ogni opinione è apprezzata.
Ovviamente la possibilità che tutto ciò sia solo un teatrino esiste.
Ma sempre di più coloro che devono assistervi comprendono perfettamente se si tratta di una falsa o di realtà.
In questo senso, l’ambiente aziendale può riflettere quel substrato morale di cui parla Whitehouse: una “morale naturale”, indipendente dalle singole religioni, ma che affonda le sue radici nell’evoluzione della specie.
Se i nostri antenati svilupparono questi valori per facilitare la sopravvivenza del gruppo, nelle organizzazioni essi creano un clima di fiducia e stabilità, rendendo l’azienda più resiliente e coesa.
Whitehouse invita a riconoscere che i principi etici sono già dentro di noi, e che applicarli può fare la differenza anche sul lavoro.
Quando la collaborazione si fonda su un’etica condivisa, l’azienda diventa un luogo di crescita reciproca, dove i risultati non si misurano solo nei numeri, ma nella qualità delle relazioni e nel rispetto che ciascun membro porta all’altro.
In questo modo, la collaborazione supera il puro obiettivo produttivo per diventare una pratica di valore umano e morale.
O almeno dovrebbe.
Esiste infatti anche la possibilità che qualcuno non sia in linea di principio d’accordo col fatto che si debba lavorare e questo ovviamente apre un’altra pagina di discussione sul futuro. che è già una realtà in molte aree della società.
Ecco il link all’articolo : https://bigthink.com/thinking/do-you-need-religion-to-be-a-moral-person/
I,WE – Inclusion, Welfare, Environment. La lezione di Olivetti.
Mi ritrovo spesso a riflettere su cosa significhi davvero collaborare in azienda. È una domanda che mi accompagna da anni, nella mia esperienza come manager e nelle conversazioni con colleghi e leader aziendali. Proprio questa riflessione continua mi ha portato a esplorare, nel mio ultimo articolo per I,WE, un aspetto che troppo spesso trascuriamo quando parliamo di collaborazione: l'impatto delle disparità salariali.
Studiando il modello Olivetti, mi ha colpito profondamente scoprire come il differenziale salariale fosse mantenuto entro il rapporto di 10 a 1. Non era solo una questione di numeri, ma una precisa visione della comunità aziendale. Oggi, con rapporti che superano il 300 a 1, viene da chiedersi: che tipo di collaborazione stiamo costruendo?
È una domanda che mi inquieta. Parliamo continuamente di team building, di strumenti digitali per la collaborazione, di metodologie agili. Ma forse stiamo costruendo sulla sabbia. Come possiamo aspettarci vera collaborazione quando le disparità creano fossati sempre più profondi tra le persone?
Le ricerche della Harvard Business Review e della London School of Economics confermano questa intuizione: l'equità salariale non è solo una questione di giustizia sociale, ma un fondamento della collaborazione efficace. È il terreno su cui crescono - o muoiono - la fiducia e l'impegno reciproco.
Mi sono trovato a confrontare questi dati con la mia esperienza sul campo. Quante volte ho visto progetti di collaborazione fallire non per mancanza di competenze o strumenti, ma per quella sottile erosione della fiducia che nasce dalla percezione di disparità ingiustificate?
La lezione di Olivetti ci sfida a un ripensamento profondo. Non si tratta solo di rivedere le politiche salariali, ma di riconsiderare il significato stesso di comunità aziendale. In un'epoca in cui la collaborazione è più cruciale che mai, forse è tempo di chiederci se i nostri modelli attuali non stiano minando le fondamenta stesse di ciò che vogliamo costruire.
Vi invito a leggere l'approfondimento completo su I,WE, dove esploro nel dettaglio questo tema cruciale e le sue implicazioni per il futuro del lavoro. La rivista offre uno spazio prezioso per riflettere su questi temi fondamentali per il nostro futuro professionale e organizzativo.
Qui sotto l’articolo in PDF.
Il paradosso del Middle Management: come evolvere insieme.
La recente ricerca di Robert Walters ha portato alla luce un dato che mi ha fatto riflettere intensamente: il 52% dei professionisti della Generazione Z sembra non volere diventare middle manager.
Mi sono fermato a riflettere su questo dato. Dopo decenni in cui il percorso sembrava segnato - crescere professionalmente significava inevitabilmente diventare manager - oggi assistiamo a quello che viene definito "conscious unbossing". Non è solo ribellione generazionale: il 69% dei giovani considera il middle management un ruolo ad alto stress e bassa gratificazione.
La mia esperienza mi porta a vedere in questi numeri qualcosa di più profondo di una semplice avversione al comando. Quando il 72% dei giovani preferisce un percorso di crescita individuale alla gestione di altre persone, sta mandando un messaggio chiaro: il modello tradizionale di organizzazione aziendale non risponde più alle aspirazioni delle nuove generazioni.
È interessante notare come questa visione si scontri con la realtà aziendale attuale: l'89% dei datori di lavoro considera ancora i middle manager cruciali per l'organizzazione. Siamo di fronte a un paradosso: ruoli considerati fondamentali dalle aziende vengono visti come gabbie da chi dovrebbe aspirarvi.
Mi viene da pensare a quanto discusso nel mio precedente articolo su I,WE sulla lezione di Olivetti. Anche allora si parlava di ripensare le strutture organizzative, di creare ambienti di lavoro più equi e sostenibili.
Forse la Gen-Z, con il suo rifiuto del middle management tradizionale, sta semplicemente portando alle estreme conseguenze quella riflessione.
La sfida che vedo emergere non è tanto come convincere i giovani ad accettare ruoli di middle management, ma come ripensare questi ruoli per un mondo del lavoro profondamente cambiato.
Come trasformare il "boss" in un facilitatore, il controllore in un abilitatore di talenti?
Dopo anni di esperienza nel management, voglio condividere alcune riflessioni concrete per entrambe le parti di questa equazione.
Per chi oggi è middle manager o si prepara a diventarlo:
Ripensate il ruolo come quello di un facilitatore più che di un controllore
Concentrate l'energia su progetti specifici dove potete creare valore reale
Negoziate spazi di autonomia sia per voi che per il vostro team
Richiedete formazione specifica sulle nuove competenze di leadership
Create momenti di lavoro concentrato, proteggendo il team dalle interruzioni continue
Per i giovani professionisti che guardano con scetticismo al ruolo:
Considerate il middle management non come una gabbia ma come una piattaforma per il cambiamento
Sperimentate gradualmente responsabilità di coordinamento in progetti specifici
Proponete modelli ibridi dove la crescita individuale si combina con la gestione del team
Cercate mentor che abbiano reinventato il ruolo in modo innovativo
Sviluppate competenze tecniche e soft skill in parallelo
Per le organizzazioni che vogliono evolvere:
Create percorsi di carriera non lineari, dove la crescita non significa necessariamente gestire persone
Introducete ruoli di "specialist leader" focalizzati su expertise tecnica
Riducete i livelli gerarchici favorendo strutture più piatte e agili
Implementate sistemi di feedback continuo e riconoscimento tra pari
Investite in strumenti che riducano il carico amministrativo dei manager
La soluzione potrebbe essere più vicina di quanto pensiamo: strutture più fluide, dove leadership e competenza tecnica si alternano in base ai progetti, dove il valore viene dal contributo reale più che dal titolo, dove stress e ricompense trovano un equilibrio più sano.
I numeri chiave della ricerca Robert Walters (Settembre 2024)
✦ 52% dei professionisti Gen-Z non vuole diventare middle manager
✦ 72% della Gen-Z preferisce un percorso di crescita individuale anziché gestire altri
✦ 69% della Gen-Z considera il middle management troppo stressante e poco gratificante
✦ 89% dei datori di lavoro ritiene i middle manager cruciali per l'organizzazione
✦ 63% dei professionisti pensa che i senior valorizzino il middle management più dei giovani
✦ 36% si aspetta di dover assumere il ruolo di middle manager nonostante non lo desideri
✦ 16% rifiuta categoricamente di considerare il ruolo
✦ 14% della Gen-Z considera ancora valida la struttura gerarchica tradizionale
✦ 30% della Gen-Z preferirebbe una struttura piatta e team-based
✦ 18% cita il limitato potere decisionale come criticità del ruolo
✦ 11% vede la ridotta crescita personale come problema
✦ 75% degli attuali middle manager si sente sopraffatto e stressato (fonte: Capterra)
Note: La ricerca è stata condotta nel Regno Unito durante il periodo definito come 'great unbossing', con grandi aziende come Meta e Citigroup che hanno ridotto del 30% i ruoli di middle management.
PS: Se state sperimentando approcci innovativi al middle management nella vostra organizzazione, mi piacerebbe conoscere la vostra esperienza.
Spero ti sia piaciuto questo numero e se hai suggerimenti commenta.
Sempre in viaggio per fare la nostra Grande Differenza.
Grazie
Sebastiano
"Prima di tutto il buon esempio. Chi guida deve comportarsi meglio degli altri, altrimenti perde ogni autorevolezza."
Dacia Maraini