Isolarsi o collaborare? La scelta che cambia il futuro.
Viviamo in un’epoca in cui siamo iper-connessi, ma spesso più soli che mai. Ma possiamo fare molto per evitarlo.
Anche questa newsletter è arrivata.
Oggi esploriamo tre temi cruciali: come i piccoli gesti rafforzino le relazioni, perché l’isolazionismo è una trappola e come il potere delle scuse può cambiare le nostre vite.
1️⃣ Micro-connessioni che fanno la differenza → Perché i piccoli gesti contano più di quanto pensiamo.
2️⃣ La solitudine della competizione estrema → Il mito del “vincere da soli” e i suoi rischi.
3️⃣ L’arte di chiedere scusa → Perché saper riconoscere i propri errori è una superpotenza.
👉 Perché leggerla (e condividerla)?
Questi spunti non sono solo teoria: sono strumenti pratici per rendere il nostro lavoro e la nostra vita meno isolati, più efficaci e più umani.
Leggi, applica e, se trovi qualcosa di utile, condividilo con chi ne ha bisogno. Perché, alla fine, nessuno costruisce qualcosa di grande da solo.
La strategia del "micro-contatto" e altri facili modi per rimanere umani e meno soli.
Ho osservato, nel corso degli anni, come la solitudine si sia infiltrata silenziosamente nelle nostre vite, mascherata da autonomia e indipendenza.
È come un fiume carsico che scorre sotto la superficie della nostra società iperconnessa, emergendo nei momenti più inaspettati.
Spesso, nel mondo aziendale, ho incontrato professionisti brillanti che hanno costruito fortezze di competenza intorno a sé.
“Non ho bisogno di nessuno".
"Il mio lavoro parla per me".
Ma è proprio qui che si nasconde il paradosso: più diventiamo competenti, più rischiamo di isolarci.
LinkedIn, Teams, Zoom - strumenti potenti, certo.
Ma come il caffè decaffeinato, offrono l'illusione della connessione senza la sua vera essenza.
Ho notato che le persone più resilienti nel nostro ambiente sono quelle che hanno saputo bilanciare la tecnologia con l'autenticità delle relazioni personali.
Ok. Facile da capire. Difficile da praticare.
Come le diete direi.
Ho praticato negli anni quella che chiamo la "strategia del micro-contatto": piccoli, ma significativi momenti di connessione autentica. Può essere un caffè con un collega, una telefonata spontanea, un pranzo non programmato.
Sono questi momenti apparentemente insignificanti per i duri e puri calvinisti del
management del “io sò io e voi non siete…” che costruiscono il tessuto delle relazioni durature.
Inoltre aggiungerei :
1. La regola dei 5 minuti: Prima di ogni riunione online, dedicare 5 minuti a conversazioni non lavorative. Ho visto team trasformarsi grazie a questa semplice pratica.
2. Il principio della vulnerabilità strategica : Condividere occasionalmente le nostre sfide. Non per mostrare debolezza, ma per creare connessioni autentiche.
3. L'approccio del mentoring reciproco: Creare opportunità di scambio di competenze. Ho scoperto che quando insegniamo qualcosa, di solito riceviamo molto più di quanto diamo ( lo so, serve fede).
La solitudine nel mondo professionale moderno non è un destino inevitabile, ma una condizione che possiamo attivamente modificare.
La vera sfida non sta nell'aggiungere nuovi impegni alla nostra agenda già sovraccarica - questo lo sappiamo tutti fin troppo bene. Il segreto, se è davvero è poi un segreto, risiede nella capacità di trasformare i momenti che già viviamo in opportunità di connessione più profonda.
Da soli si vince? La grande illusione che potrebbe costarci cara.
C’è un dato che emerge con chiarezza dagli scenari politici attuali: l’idea di collaborazione, sia tra nazioni che tra individui, è sotto attacco. La nuova classe dirigente conservatrice, con Trump come simbolo non unico ma più evidente, spinge per un mondo in cui ogni stato fa per sé.
L’isolazionismo torna a essere una strategia politica ed economica, come dimostrano i dazi doganali, la sfiducia nelle istituzioni sovranazionali e il crescente euro-scetticismo. In questo schema, la forza e la competizione prevalgono sulla cooperazione, la contrapposizione diventa la norma, e chi è più forte vince.
E in effetti, l’isolazionismo è affascinante come idea, ma solo se alla fine sei davvero tu il più forte.
Il problema è che non tutti possono esserlo, e la storia ci insegna che chi oggi crede di avere il bastone in mano scopre spesso troppo tardi di essersi sbagliato.
Quando poi il bastone di chi davvero è il padrone cala sulla testa, allora si comprende il prezzo reale della competizione senza regole.
Magari è solo un modo per acquisire una posizione negoziale di forza e magari tutto si esaurirà con una montagna che partorisce un topolino, ma se osserviamo comunque questa tendenza con attenzione, notiamo un effetto a cascata polarizzante che già si presenta con forza nelle relazioni sul posto di lavoro.
O perlomeno io lo osservo quotidianamente nei dialoghi con tanti attori ed attrici del mercato.
Conflittualità montante e un menefreghismo per le posizioni altrui dilagante.
Se la politica adotta l’isolazionismo e lo trasforma in una dottrina sociale, non sorprende che lo stesso atteggiamento si diffonda nel tessuto sociale e lavorativo.
Se i leader delle nazioni insegnano che l’unica strategia vincente è difendersi dagli altri e prevalere, come possiamo aspettarci che nelle aziende fiorisca la collaborazione?
Perché un team dovrebbe credere nel gioco di squadra se la narrazione dominante è quella della competizione senza regole, dove alla fine “ne resterà uno solo”?
Un rischio storico che abbiamo già visto
Se torniamo indietro nel tempo, vediamo che l’isolazionismo e la competizione sfrenata sono stati spesso segnali precursori di crisi profonde.
La Grande Depressione del 1929 fu acuita da politiche protezionistiche che frammentarono il commercio globale, rallentando la ripresa economica.
Il crollo delle istituzioni multilaterali negli anni ‘30 non fu solo una scelta economica, ma una precisa visione della società, basata sul nazionalismo economico e sulla sfiducia reciproca.
Anche oggi, mentre gli stati si chiudono in sé stessi e le imprese faticano a trovare un terreno comune per la cooperazione, corriamo il rischio di alimentare una dinamica simile: meno collaborazione porta a meno fiducia, meno fiducia porta a meno crescita, meno crescita porta a più conflitti interni ed esterni.
È una spirale discendente che ha già prodotto, nella storia, periodi di instabilità sociale e regressione economica.
Ma non è solo una questione di passato. Il futuro che stiamo costruendo con queste scelte ci porta a una domanda centrale: in un mondo iper-connesso, è realistico pensare che si possa vincere da soli?
Competizione e collaborazione non sono nemici, ma alleati
La narrazione dominante tende a dipingere la collaborazione come una posizione di debolezza e la competizione come sinonimo di forza.
Ma questa è una visione semplicistica e miope. I più grandi successi economici e politici della modernità sono nati dalla capacità di bilanciare competizione e collaborazione.
La Silicon Valley, per esempio, è la culla del capitalismo ipercompetitivo, ma si è sviluppata grazie a un ecosistema collaborativo tra università, imprese, venture capitalist e stato. L’Unione Europea, pur con tutti i suoi limiti, è stata l’unico strumento che ha permesso agli stati membri di competere su scala globale senza essere fagocitati da superpotenze economiche.
Le aziende più innovative hanno dimostrato che la concorrenza interna funziona solo se esiste un sistema di collaborazione che garantisca accesso alle informazioni e condivisione della conoscenza.
Ma anche piu prosaicamente i distretti italiani accelerano la loro scomparsa quando difronte alla concorrenza sbandano e si lasciano andare all'entropia fra le singole realtà produttive anziché nutrire la collaborazione.
L’alternativa a questo equilibrio è la regressione verso un mondo dove i singoli (che siano stati, aziende o individui) sono in lotta costante tra loro e il player più forte ne approfitta.
Ma se tutto si trasforma in un’arena, il costo sociale sarà altissimo: aumento delle disuguaglianze, perdita di stabilità economica e, nel lungo periodo, una società meno capace di adattarsi ai cambiamenti.
Ed è qui che emerge un altro errore di valutazione: l’idea che “ognuno per sé” sia un affare, soprattutto per chi sta già bene.
In una società in calo demografico e che invecchia in fretta, attraversata da tensioni sociali crescenti, lo smantellamento delle reti di collaborazione e protezione reciproca non è un problema solo per chi è ai margini, ma anche per chi oggi crede di essere al sicuro.
Solo che, come spesso accade, lo si capisce quando è troppo tardi.
Il punto cieco della politica e del management contemporaneo
C’è un punto cieco in tutto questo. Politici e manager spesso si concentrano sul breve termine: l’elezione da vincere, il trimestre da chiudere in utile.
Ma la costruzione di un sistema collaborativo è un progetto di lungo periodo, che non offre risultati immediati, ma getta le basi per una crescita sostenibile.
Se la politica sceglie l’isolazionismo, se l’impresa sceglie l’individualismo competitivo, il risultato sarà una società meno resiliente.
E la resilienza oggi non è un lusso, ma una necessità. Le grandi sfide del nostro tempo – cambiamento climatico, diseguaglianze sociali, transizione digitale – non possono essere affrontate in solitudine.
La vera scelta: quale sistema vogliamo costruire?
Arriviamo così al punto centrale: non si tratta di una battaglia ideologica tra chi è per la collaborazione e chi è per la competizione. Si tratta di capire quale sistema sia più efficace nel lungo periodo.
Vogliamo un mondo dove ogni individuo, azienda o stato deve combattere da solo per sopravvivere, con il rischio che i più deboli vengano schiacciati?
Oppure vogliamo un sistema in cui la competizione esiste, ma all’interno di un quadro di regole, fiducia e cooperazione?
Il punto è che, a ben vedere, non c’è una vera alternativa.
La storia ha già dimostrato che quando la competizione si trasforma in lotta senza regole, il risultato non è il successo diffuso, ma il caos.
E certo, il caos genererà un nuovo ordine ma non necessariamente migliore.
E se non ci fermiamo almeno a riflettere ora sul futuro che vogliamo, il rischio è quello di scoprire troppo tardi di aver scelto la strada sbagliata.
Perché scusarsi oggi potrebbe cambiarci la settimana (e forse anche la vita).
"The Art of Apology" è un libro scritto da Beverly Engel nel 2007, ma ancora oggi è ricco di suggerimenti su come chiedere scusa in modo efficace nelle relazioni personali e professionali. Mi ha fatto riflettere molto.
Chiedere scusa porta benefici.
Non solo rimette a posto le relazioni, ma aiuta a promuovere il perdono. Questo concetto è fondamentale in molte tradizioni filosofiche e religiose: riconoscendo i nostri errori ed esprimendo rimorso, creiamo le condizioni affinché gli altri possano perdonarci e superare conflitti o azioni offensive.
E diciamocelo: chi di noi non ha qualcosa di cui scusarsi? Io, per esempio, ne ho di certo.
È quasi impossibile che, nelle ultime settimane, qualche nostro comportamento non abbia leso, offeso, seccato o infastidito un collega, un amico, un familiare.
Sì, lo so: scusarsi è difficile. Di solito, per due motivi:
1. O perché non ci interessa abbastanza dell'altra persona o della relazione.
2. Oppure perché pensiamo che le nostre scuse non avranno effetto.
Eppure, le scuse sono uno strumento potente per riparare rapporti danneggiati, mantenere relazioni sane e non restare dalla parte di chi non ha nemmeno provato a rimediare.
Come fare una scusa efficace?
- Sincerità. Evitare frasi fatte e di circostanza.
- Responsabilità. Ammettere la propria colpa senza giustificazioni.
- Desiderio di riparazione. Offrire un gesto concreto per rimediare al danno causato.
- Tempestività. Prima si chiede scusa, meglio è. Ma anche se tardive, le scuse valgono.
Beverly Engel suggerisce anche di proporre soluzioni per evitare che l'errore si ripeta e di scusarsi anche quando non si è del tutto sicuri di essere la causa del danno, poiché questo può calmare tensioni e migliorare i rapporti.
Perché oggi le scuse sembrano fuori moda?
Viviamo in un'epoca in cui sembrano funzionare di più i villani, le sbruffone, i prepotenti. Chi urla di più vince, almeno nel "social".
Ma nella società civile, quella vera, chiedere scusa è un atto di coraggio, umiltà e intelligenza emotiva.
Scusarsi significa ammettere di aver sbagliato.
E questo, invece di indebolirci, crea fiducia e rispetto nelle nostre relazioni personali e professionali.
In sintesi: il metodo delle 3 R per scuse efficaci.
Se vuoi scusarti in modo significativo, ricorda tre parole chiave:
- Rimpianto (ammettere che avresti voluto comportarti diversamente).
- Responsabilità (riconoscere il tuo ruolo nell'errore).
- Rimedio (fare qualcosa di concreto per sistemare le cose).
A volte basta una semplice frase, ma detta nel modo giusto.
Potrebbe cambiare la nostra settimana, e forse anche qualcosa di più.
Ed eccoci arrivati alla fine di questa newsletter. Si lo so tante cose. Ma nessuno di che sia un professionista serio potrà mai sostenere che le soluzioni ai problemi complessi possano essere semplici. E la collaborazione tra umani al giorno d’oggi è un fenomeno molto complesso. Avanti sempre, la ruggine non dorme mai.
Qualsiasi feedback è apprezzato.
"In tre ( due in italiano ndt ) parole posso riassumere tutto ciò che ho imparato sulla vita: va avanti."
Robert Frost
A livello di collaborazione d’ufficio, essendo la più anziana in servizio mi sento isolata, i giovani collaborano tra di loro; la mia esperienza è come non contasse, dato che loro sono più smart (input aziendale ) e io una senior o gold, insomma rappresento il vecchio. Sono Rsu,Rsl ma le cose non me le dicono hanno paura che li metta contro l’azienda, fanno da soli con rapporto diretto con il quadro e i sottoposti. Con me si lamentano brontolano ma poi si piegano con reverenza, offrendosi volontari a tutto pur di compiacere.
Io dal canto mio adesso osservo non dico più nulla e riferisco al mio referente.
In più, sembra che mi isolino anche a livello di rapporti interpersonali; fanno cose insieme e io vengo a saperle dopo senza comprendermi e altre cose. Da parte mia sicuramente farò degli errori e in linea di massima so anche quali ma come scusarsi sentendosi non inclusa? Il gap generazionale c’è non lo nego.
Ecco la mia riflessione mattutina.
Non è più solo un tema aziendale ( e poi, alla fine, ci interessa davvero non essere soli in azienda?) Il problema inizia ad essere sociale e vedo iniziare a costruirsi società parallele, co-housing e community di pratica. Forse una piccola rivoluzione intestina qualcuno la sta già facendo.