Parlare per non dire niente: il paradosso delle riunioni moderne.
Come riconoscere la loquacità performativa e trasformare le tue riunioni in momenti di vero valore.
Martedì scorso, durante una riunione di team, ho contato sedici interventi in venti minuti. Tutti utili, per carità. Ma mentre ascoltavo il sedicesimo "volevo solo aggiungere che..." mi è venuto un dubbio: e se avessimo creato un mostro opposto a quello che volevamo combattere?
Mi chiedo: quante di noi hanno vissuto quella sensazione strana durante una riunione? Quando senti che tutti parlano, che tutto sembra funzionare, ma c'è qualcosa che non quadra. Come se dietro a tutta quella comunicazione si nascondesse una nuova forma di silenzio.
Oggi vorrei dunque esplorare insieme questo paradosso: nel tentativo di creare ambienti dove tutti si sentano liberi di esprimersi, abbiamo creato ambienti dove tutti si sentono obbligati a farlo. E questa differenza, per quanto sottile, sta cambiando il modo in cui lavoriamo insieme.
Il silenzio come primo sintomo di insicurezza psicologica.
È una storia che inizia bene, con le migliori intenzioni.
Negli ultimi anni abbiamo imparato a riconoscere il silenzio come sintomo. Il volo Korean Air 801 del 1997 è diventato il caso di studio perfetto: il copilota aveva notato che la discesa era troppo rapida, ma invece di dirlo chiaramente usò una forma linguistica indiretta. Il comandante non colse l'allarme. L'aereo si schiantò.
Gladwell l'ha resa famosa in "Outliers", e da allora è diventata la metafora universale di come cultura e gerarchia possano soffocare la comunicazione critica. Amy Edmondson ce lo ha insegnato: la sicurezza psicologica si misura anche dalla voce che circola in un'organizzazione.
Ineccepibile: il silenzio può essere un problema.
Ma nella nostra giusta preoccupazione per i silenzi vuoti, abbiamo fatto quello che facciamo sempre: abbiamo trasformato una dinamica complessa in una ricetta semplice.
"Il silenzio è il nemico, la parola è la soluzione."
È qui che perdiamo il territorio più prezioso del lavoro in team: la zona grigia. Quella terra di mezzo dove le dinamiche di collaborazione diventano davvero interessanti. Dove non esistono protocolli universali e dove l'esperienza conta più dei manuali.
Noi esseri umani abbiamo un bisogno disperato di certezze binarie. Bianco o nero. Giusto o sbagliato. Funziona o non funziona. Io mi sono perso molte sfumature prima che qualche capo saggio e di successo me lo facesse notare. Mi sono ripromesso di non farlo più, per questo non mi trovo a mio agio a fare il giudice, l’opinionista, il censore. E’ abbastanza probabile perderti le sfumature quanto giudichi e basta.
Ma le organizzazioni vivono nelle sfumature.
E quando riduciamo queste sfumature a formule semplici - se X allora Y - perdiamo esattamente ciò che fa la differenza. La differenza tra un team che funziona davvero e uno che segue solo i protocolli.
È come voler dipingere un tramonto con solo due colori. Tecnicamente è possibile, ma ti perdi tutta la bellezza.
La loquacità performativa.
Il paradosso che non vediamo: se il silenzio è sempre colpevole, allora per evitare questa colpa dobbiamo dimostrare costantemente la nostra presenza attraverso le parole. E questa necessità di riempire ogni spazio sonoro può diventare essa stessa un sintomo di insicurezza.
L'ho vista in azione. Persone che parlano non perché hanno qualcosa di importante da dire, ma per dimostrare di non essere silenziose. Manager che interpretano ogni pausa come dissenso nascosto. Team che confondono la quantità di feedback con la qualità della comunicazione.
La chiamo "loquacità performativa": si parla per recitare la parte del dipendente coinvolto, del leader presente, del collega collaborativo, della vittima incolpevole e così via di cliché e avatar aziendali. La parola diventa alibi, il rumore diventa scudo.
Abbiamo sviluppato una vera e propria "ansia da silenzio" - una versione moderna dell'antico horror vacui, la paura del vuoto. Un vuoto che, nel contesto comunicativo, temiamo possa rivelare una mancanza di idee, di accordo, o peggio, la nostra stessa irrilevanza.
Il silenzio strategico (quando non è un problema).
"Le persone non si limitano a tacere quando hanno paura o quando pensano che non ci sia alcun senso, come suggerito e assunto dalla letteratura. In realtà lo fanno per ragioni strategiche, per motivi di performance, per far sentire la propria voce e per essere recepite molto meglio quando lo fanno".
Michael Parke
Non tutti i silenzi sono uguali. Uno studio1 condotto dal professore di management della Wharton University, Michael Parke, ha scoperto qualcosa di illuminante sui dipendenti con le performance più alte: non sono quelli che parlano di più nelle riunioni. Sono quelli che sanno quando tacere.
Questi dipendenti considerano tre fattori prima di parlare:
se la questione è rilevante per il contesto,
se sono pronti a discuterne in modo costruttivo,
e se il loro interlocutore è nella condizione di ascoltare davvero.
Quando finalmente parlano, i loro manager percepiscono il contributo come "deliberato, ponderato e ben temporizzato". Risultato? Valutazioni migliori, riconoscimenti più frequenti, carriere più solide.
Esistono forme diverse di silenzio. Il silenzio della paura, quello della riflessione, quello del rispetto per chi sta parlando. Non tutti sono sintomi di problemi.
La sicurezza psicologica artificiale.
Nel nostro sforzo di creare ambienti psicologicamente sicuri, rischiamo di cadere in una trappola sottile. L'ho visto molte volte in azienda: ambienti dove tutti sembrano sentirsi liberi di esprimersi, dove ogni riunione è un festival di feedback positivi, dove nessuno ha mai dubbi o perplessità.
Solo che, come nell'armonia artificiale che Patrick Lencioni descrive in "Cinque disfunzioni del team", anche qui le persone scelgono parole e azioni sulla base di come vogliono che reagiscano gli altri, anziché sulla base di quello che pensano veramente.
La differenza è sottile ma cruciale: nell'armonia artificiale tutti tacevano per paura del conflitto. Nella versione moderna tutti parlano per paura del silenzio. Il meccanismo è lo stesso - l'ambiente politico dove la performance conta più dell'autenticità - ma la maschera è diversa.
Ecco il punto che cambia tutto.
Quando il silenzio nasce dall'insicurezza, la persona pensa: "se parlo forse sbaglio".
Quando la loquacità nasce dall'insicurezza, la persona pensa: "se non parlo sembrerò assente".
È la stessa radice - l'insicurezza - che genera comportamenti opposti.
In entrambi i casi, la comunicazione diventa performance anziché connessione autentica. Cambia solo la maschera, ma il meccanismo psicologico è identico: dimostrare qualcosa agli altri anziché condividere qualcosa con gli altri.
Come due facce della stessa moneta. Una zittisce, l'altra riempie il vuoto. Ma entrambe hanno paura dello stesso giudizio.
Che tipo di presenza portiamo in riunione?
Non è solo questione di parlare o tacere, ma di come ci stiamo dentro. Incrociando due variabili — il tempo di elaborazione (lento o rapido) e la modalità relazionale (reattiva o intenzionale) — emergono quattro stili:
Congelato: elabora lentamente ma non prende parola, per timore o insicurezza.
Impulsivo: parla subito, spesso senza riflettere, per riempire il vuoto.
Riflessivo: ascolta, pensa, interviene solo quando serve davvero.
Mirato: rapido ma lucido, dice molto in poco, senza sovrapporsi.
Solo i due stili intenzionali portano contributi autentici. Non è la quantità a fare la differenza, ma la presenza consapevole.
Riconoscere i segnali .
Come riconoscere quando siamo scivolati nella trappola della loquacità performativa e della sicurezza artificiale?
Ho imparato nei lavori di gruppo a identificare alcuni pattern:
Nelle riunioni:
le persone parlano per dimostrare presenza, non per aggiungere valore
i momenti di pausa diventano immediatamente imbarazzanti
si ripetono concetti già espressi con parole diverse
le domande complesse ricevono risposte immediate e superficiali
Nei team:
chi ascolta di più viene percepito come meno coinvolto
la velocità di risposta diventa più importante della qualità del pensiero
si preferisce un'opinione rapida a una riflessione ponderata
i momenti di silenzio vengono riempiti con battute o commenti inutili
È l'insicurezza che cambia maschera. Invece del silenzio timoroso, vediamo l'ansia da visibilità verbale: un bisogno compulsivo di intervenire, di commentare, di essere visti e sentiti.
Durante i miei anni in azienda, le decisioni più stupide le ho viste nascere proprio da questa fretta di riempire i silenzi. Idee non ancora mature che venivano condivise troppo presto. Soluzioni superficiali che emergevano dalla paura di sembrare indecisi. Consensi fittizi che nascondevano dubbi non espressi.
In ogni conversazione significativa esistono due livelli: l'atto cognitivo di comprendere e l'atto performativo di dimostrare di aver compreso.
I leader più efficaci con cui ho lavorato hanno sviluppato questa capacità di rendere trasparente il loro processo di ascolto e ragionamento. Non si limitano ad ascoltare: verbalizzano quello che stanno sentendo, riflettono ad alta voce sui dilemmi che stanno considerando, spiegano perché stanno prendendo tempo per decidere.
Inoltre tendevano a parlare per ultimi, una volta sentiti tutti gli altri.
Quando la pressione a dimostrare partecipazione diventa costante, perdiamo entrambi questi livelli. Non ascoltiamo davvero perché siamo troppo concentrati su cosa dire dopo. E non riflettiamo perché il tempo della riflessione viene percepito come vuoto da riempire.
Quattro strumenti che possono aiutare.
Non servono rivoluzioni, ma piccoli cambiamenti che riconoscano la legittimità di entrambi: silenzi e parole. Alcune cose che ho visto funzionare:
1. Il protocollo del "sto processando" Invece di lasciare che il silenzio venga frainteso, chi ha bisogno di tempo lo dice esplicitamente: "sto elaborando quello che hai detto, dammi un momento". Una metacomunicazione semplice che previene malintesi.
2. La regola della "scrittura silenziosa" Prima di discussioni complesse, cinque minuti di brainwriting individuale in silenzio. Tutti scrivono le loro idee prima di condividerle. Questo legittima una fase di elaborazione silenziosa e riduce la pressione per reazioni immediate.
3. I rituali del silenzio produttivo Due minuti di silenzio obbligatorio dopo ogni obiezione significativa o proposta complessa. Tempo per assorbire, riflettere, passare dalla modalità reattiva a quella riflessiva.
4. La domanda che disinnesca l'ansia "Cosa ti serve per sentirti pronto a rispondere?" invece di pressare per una reazione immediata. Questa domanda riconosce che ognuno ha tempi diversi di elaborazione.
E se fosse questione di età?
È una domanda che sento spesso quando lavoro sulla collaborazione intergenerazionale in azienda. Ma la risposta è più sottile di quello che sembra.
Sebbene le generazioni possano differire nei modi di esprimere valori comuni, queste variazioni sono spesso il risultato di esperienze formative e ambienti culturali diversi piuttosto che di differenze intrinseche legate all'età.
Pensa a questo:
Chi si è formato in contesti organizzativi tradizionali, fortemente gerarchici, potrebbe manifestare l'insicurezza attraverso un silenzio eccessivamente cauto. O al contrario, con interventi logorroici ma focalizzati a ribadire la propria aderenza alle norme percepite.
Chi invece è cresciuto immerso in flussi comunicativi digitali costanti - dove visibilità e rapidità sono valorizzate - potrebbe tradurre la stessa insicurezza in una pressione a intervenire frequentemente. A "segnare la propria presenza" nel dialogo continuo, temendo che il silenzio venga interpretato come disinteresse.
Il punto cruciale non sarebbe quindi tracciare rigide linee generazionali ma piuttosto riconoscere come l'insicurezza umana si adatta e si esprima in forme diverse.
Per affrontare il problema alla sua radice: la mancanza di fiducia autentica che permetta sia la parola significativa sia il silenzio riflessivo.
Cambia l'ambiente, cambiano le maschere. Ma la paura resta la stessa.La grande differenza
La vera differenza non sta nel parlare sempre o nel tacere sempre. Sta nell'essere presenti. Presenti quando parliamo, presenti quando ascoltiamo, presenti quando riflettiamo in silenzio.
Un ambiente davvero sicuro non elimina né il silenzio né la parola. Crea spazi dove puoi parlare senza paura quando hai qualcosa di importante da dire, ma anche rimanere in silenzio senza essere giudicato quando hai bisogno di riflettere.
Tre domande che mi faccio sempre e che potrebbero fare la differenza:
Qual è la qualità del nostro silenzio? È il silenzio della paura o quello della riflessione?
Qual è la qualità delle nostre parole? Parliamo per aggiungere valore o per dimostrare presenza?
Come possiamo creare spazi dove sia il silenzio che la parola possano essere strumenti di connessione e comprensione?
📋 TAKEAWAY
Il problema: La paura del silenzio ha creato la "loquacità performativa" - parlare per dimostrare presenza invece che per aggiungere valore.
I segnali: Risposte immediate a domande complesse, imbarazzo per le pause, velocità privilegiata sulla qualità del pensiero.
Gli strumenti:
Protocollo "sto processando"
Scrittura silenziosa prima delle discussioni
Rituali di silenzio produttivo
Domanda "cosa ti serve per essere pronto?"
La chiave: Fiducia che il valore non si misura in decibel, ma nella qualità del contributo.
Il fattore umano: Noi esseri umani abbiamo un bisogno disperato di certezze binarie - bianco o nero, giusto o sbagliato, funziona o non funziona. Ma le organizzazioni vivono nelle sfumature. E quando riduciamo queste sfumature a formule semplici (se X allora Y), perdiamo esattamente ciò che fa la differenza tra un team che funziona davvero e uno che segue solo i protocolli.
Eccoci alla fine, vi confesso una cosa: mentre scrivevo questa newsletter, ho ripensato a tutte le volte che anch'io ho parlato per riempire il silenzio. A tutte le riunioni dove ho detto qualcosa solo per dimostrare che c'ero. Questo viaggio verso una comunicazione più autentica lo stiamo facendo insieme.
Grazie per avermi tenuto compagnia anche oggi.
La strada è ancora lunga, ma almeno non la percorriamo da soli.
Il tema che abbiamo trattato ti suona familiare? Ti è mai capitato di sentirti in trappola tra il dire troppo e il dire troppo poco?
La tua esperienza mi interessa davvero - diventa materiale prezioso per esplorare sempre di più le dinamiche di collaborazione, motivazione e gestione dei conflitti aziendali.
Raccontami cosa hai vissuto, rispondo sempre.
Un abbraccio, lavorare è collaborare.
Sebastiano
PRONTI PER VEDERCI DAL VIVO A SETTEMBRE E NOVEMBRE ?
UN APPUNTAMENTO CON ME E LEONARDO MILANI “GLI ZERI CHE CONTANO “
E UN APPUNTAMENTO CON ME E CRISTIANO OTTAVIAN ALLA MASTERCLASS SULLA COLLABORAZIONE
Ciao Sebastiano, un aspetto decisivo che spesso resta implicito è la fiducia all'interno del team. Quando c’è fiducia, quella vera, che fa sentire le persone al sicuro, si può essere diretti, essenziali, contribuire senza fronzoli. Nessuno deve “pararsi le spalle”, perché sa che ogni voce sarà ascoltata con rispetto, anche quando è scomoda.
Al contrario, in ambienti dove questa sicurezza manca, le parole si moltiplicano per protezione, per allinearsi, per non esporsi. Non è comunicazione, è sopravvivenza. E in quelle condizioni, non si collabora: si recita.
Le qualità del leader del gruppo fanno la differenza: è disposto ad ascoltare la verità o fa solo finta di fare domande ma vuole una conferma a quello che pensa lui?
E' quello che non sappiamo di non sapere che può metterci seriamente in difficoltà!
In questo contesto, è fondamentale rispettare anche le persone riflessive, che magari non parlano subito ma hanno bisogno di tempo per elaborare. Spesso, proprio da loro arrivano i contributi più lucidi e di valore. A mio avviso, la vera variabile chiave della collaborazione è il clima di fiducia in cui avvengono le conversazioni e la disponibilità del leader ad ascoltare il team.
Ci riuniamo, condividiamo slide, facciamo giri di parole e usciamo con la sensazione di aver fatto qualcosa. Ma cosa, esattamente?
Le riunioni moderne sono spesso un esercizio di forma senza sostanza: tante parole, pochi fatti, molte opinioni, scarsa direzione.
In nome della collaborazione, riempiamo calendari con incontri che confondono anziché chiarire, decidono di non decidere, e danno l’illusione del movimento mentre restiamo immobili.
Il risultato? Un’ora rubata al lavoro vero, un’energia che evapora, una frustrazione che cresce.
Parlare per non dire nulla è diventata un’arte sottile.
Ma forse è arrivato il momento di riscoprire il silenzio produttivo, le agende con un solo punto, le decisioni prese e non rimandate.
Riunirsi dovrebbe servire a risolvere, non a rinviare.
E allora la vera domanda è: stiamo davvero parlando per costruire, o solo per riempire il tempo?
Tutto questo mi ha fatto tornare in mente una vecchia poesia, tanto semplice quanto vera, di Charles Osgood:
There was a most important job that needed to be done,
And no reason NOT to do it, there was absolutely none.
But in vital matters such as this, the thing you have to ask
Is WHO exactly will it be who’ll carry out the task?
Anybody could have told you that Everybody knew
That this was something Somebody would surely have to do.
Nobody was unwilling, Anybody had the ability,
But Nobody believed that it was their responsibility.
It seemed to be a job that Anybody could have done,
If Anybody thought they were the one.
But Everybody recognized that Anybody could do it,
But Nobody realized that Everybody wouldn’t do it.
And it ended up that Everybody blamed Somebody
When Nobody did what Anybody could have done.
Nel dubbio, meglio poche parole e molta responsabilità.
Il resto è rumore.