Quello che resta quando l'AI fa tutto il resto
"La civiltà è l'arte di vivere insieme senza distruggerci a vicenda" Arnold Toynbee
Con l'ondata di tecnologia e automazione di inizio ventunesimo secolo, iniziò a diffondersi una barzelletta che condensava la paura di irrilevanza del genere umano.
In una fabbrica ci sono un cane, un uomo e un robot. L'uomo dà da mangiare al cane, e il cane si assicura che l'uomo lasci lavorare il robot in santa pace.
Con l'avvento dell'AI torna di moda. E, anzi, in maniera ancora più drammatica. Perché per la prima volta sono le competenze cognitive a rischiare di diventare superate dalla tecnologia. E questo pone una grande domanda: se le macchine fanno i compiti cosa resta a noi?
Se le macchine fanno i compiti, cosa resta a noi?
Quando ho iniziato a lavorare, nel 1990, il mondo sembrava più ordinato. O almeno così ci dicevano. Entrai dalla porta del commerciale con una valigia piena di cartelle di tessuto e un inglese incerto, e cominciai a girare il mondo vendendo Denim.
Non pantaloni: il tessuto. Quello tinto in filo con l'indaco, un colorante blu profondo con una particolarità: non si attacca mai davvero alla fibra. Resta lì, come un amante instabile, pronto ad andarsene al primo sfregamento. È per questo che i jeans invecchiano così bene: il colore si consuma nei punti dove la vita gratta di più.
Nel 1990, mentre su MTV passava Nothing Compares 2U di Sinéad O'Connor e Vogue di Madonna, nell'industria tessile stava succedendo qualcosa. Fino ad allora, la perfezione era l'obiettivo supremo. Si usava una tecnica chiamata "open end" che produceva filati regolari, tutti dello stesso diametro, senza sbandamenti, senza sbavature. Un filo senza esitazioni.
Prima dell'open end, c'era la tecnica "ring", più antica, meno precisa. Il filo passava in un anello e spesso usciva con piccole irregolarità di spessore che noi chiamavamo "fiamme". Anomalie. Difetti. E infatti i tessuti fatti col ring venivano scartati, perché non abbastanza "perfetti".
Ma nei primi anni '90, come sempre accade quando l'eccesso di ordine comincia a puzzare di noia, successe l'imprevisto. Qualcuno si accorse che quelle "fiamme" avevano un'anima. Che le irregolarità raccontavano una storia, davano carattere. E così partì la caccia: in Giappone, in Italia, in qualche capannone abbandonato degli USA. Cercavamo i vecchi telai a navetta, quelli che avevano fatto il loro tempo. Si tornò indietro per poter andare avanti.
Nei laboratori italiani si ricominciava a produrre jeans con fili imperfetti, fiamme incluse. Non erano più errori. Erano la firma.
Io, in quel periodo, ebbi la fortuna di essere là. Prima come venditore, poi come brand manager. Un testimone, certo. Ma anche un attivista, uno di quelli che provava a convincere gli altri che forse, dopotutto, la perfezione stava uccidendo qualcosa.
La perfezione è nemica del valore
Quello che imparai da quell'esperienza è che a volte la perfezione è il nemico del valore. Le piccole variazioni, gli scarti, i difetti del processo si rivelavano essere in realtà il nucleo dell'autenticità. E oggi, mentre l'intelligenza artificiale promette di ottimizzare ogni processo aziendale, mi torna in mente quella lezione sui tessuti.
Perché il lavoro umano, come il denim, ha le sue irregolarità. Ha i suoi tempi non ottimizzabili, le sue conversazioni apparentemente improduttive, i suoi momenti di inefficienza che in realtà tessono qualcosa di più profondo: la capacità di stare insieme quando le cose si complicano.
Questa è la nostra eterogeneità residuale. Non i nostri punti di forza, ma i nostri apparenti difetti. Non quello che facciamo meglio delle macchine, ma quello che facciamo diversamente: le pause, le esitazioni, i ripensamenti, i momenti di vulnerabilità che creano spazi di connessione autentica.
Come osserva Yuval Noah Harari, "You can think about AIs as like the children of humanity... your behavior has far more influence on their education than what you tell them to do."
L'intelligenza artificiale imparerà dalle nostre inconsistenze, dalle nostre contraddizioni, dalle nostre imperfezioni relazionali. Non dalla nostra perfezione tecnica, ma proprio da quelle irregolarità che sembrano essere sprechi di efficienza.
Quello che la storia ci ha già insegnato
Non si può guidare guardando nello specchietto retrovisore, è vero. Ma a volte è necessario fermarsi e capire da dove veniamo per non ripetere gli stessi errori di interpretazione.
La sensazione di essere travolti da una trasformazione tecnologica non è nuova. È successo con la Rivoluzione Industriale, l'elettrificazione, la stampa di Gutenberg. Sempre con lo stesso mix di panico e opportunità che stiamo sperimentando oggi.
Una ricerca1 ha scoperto qualcosa di inquietante: gli effetti psicologici della Rivoluzione Industriale sono ancora visibili oggi nelle popolazioni che vivono nelle ex-aree industriali. Trentatré per cento in più di ansia, ventisei per cento in meno di coscienziosità rispetto alla media nazionale. Le persone che vedevano le loro competenze artigianali diventare obsolete di fronte alle macchine hanno lasciato un'impronta genetica e culturale che dura da duecento anni.
E ogni volta, la paura dominante era la stessa: "Questa volta è diverso. Questa volta ci sostituiranno davvero." E ogni volta, è stato sia vero che falso. Gli scribi medievali sono spariti dopo Gutenberg, ma sono nati tipografi ed editori. L'elettrificazione non eliminò il lavoro, lo trasformò. I tessitori a mano persero il lavoro durante l'industrializzazione, ma l'industria creò nuove professioni.
La differenza è che oggi l'AI compete non solo con i nostri muscoli, ma anche con la nostra cognizione. La storia suggerisce che sopravviviamo non cercando di preservare quello che eravamo, ma imparando a diventare quello che non sapevamo di poter essere.
Oltre la retorica delle soft skills
Oggi parliamo molto di competenze relazionali nell'era dell'intelligenza artificiale. Ma la maggior parte di queste riflessioni rimane intrappolata in una dicotomia banale: da una parte le hard skills, dall'altra le soft skills. Come se la capacità di "reggere" fosse un optional piacevole.
Non è così. Quello che stiamo vivendo è una frattura antropologica. Per la prima volta nella storia, gran parte di ciò che consideravamo "lavoro intellettuale" può essere delegato a sistemi che non respirano, non si stancano, non hanno bisogno di pausa caffè.
Se le macchine fanno i compiti, cosa resta a noi?
La risposta non è nelle competenze che sappiamo aggiungere al nostro curriculum. È in qualcosa di molto più antico e, paradossalmente, più fragile: la nostra capacità di creare e mantenere legami. Non solo di "saper collaborare" – questo lo fanno già benissimo i software di project management. Ma di saper sacrificare tempo ed energie per qualcosa che non produce risultati immediati: la cura del tessuto relazionale.
Il tempo sacro del legame
"Uno dei motivi per cui l'ordine mondiale sta crollando è che abbiamo una mancanza di fiducia nel mondo. E questo ci rende estremamente vulnerabili all'intelligenza artificiale," avverte Harari2. Non è un'osservazione filosofica, ma un'urgenza pratica: il tessuto relazionale non è un lusso, ma una necessità di sopravvivenza.
Il sociologo Émile Durkheim aveva capito che la coesione sociale non è un lusso delle società evolute, ma una condizione di sopravvivenza. Nelle società arcaiche, il tempo dedicato ai riti, alle narrazioni condivise, non era tempo perso. Era tempo produttivo di senso.
L'intelligenza artificiale ci sta riportando a questa necessità primaria. Ci libera dai compiti operativi, ma ci chiede di reinvestire quel tempo liberato nella costruzione di quello che chiamo "tessuto connettivo organizzativo".
È scegliere di dedicare energie a conversazioni che non chiudono task, a riunioni che non producono deliverable, a momenti di presenza che non generano KPI.
È proprio in questa lentezza organica, in questi ritmi non ottimizzabili, che risiede il nostro valore distintivo.
📋 TAKEAWAY
Sette idee da mettere in campo
Fin qui, abbiamo esplorato il "perché" e il "cosa". Ma ormai ho imparato che alla fine ciò che ci assilla, ciò che ci serve è capire adesso cosa fare. "Ok, ma da lunedì cosa facciamo?" è una domanda che ho sentito troppe volte di fronte a situazioni complesse, diagnosi perfette e zero suggerimenti.
Per questo ho provato a indicare sette direzioni, sette spunti che forse potrebbero risultare utili. Non comandamenti, ma sentieri da esplorare per iniziare a coltivare ciò che di umano ci rende insostituibili. Se le macchine fanno i compiti, cosa resta a noi? Io partirei da qui.
1. Mappare le inefficienze prima di eliminarle
Invece di standardizzare tutto, ho notato che può essere utile identificare consapevolmente quali "inefficienze" del team sono in realtà punti di forza. Le pause tra le decisioni, i ripensamenti, le conversazioni apparentemente dispersive potrebbero essere il vostro vantaggio competitivo.
Potreste provare a chiedere ai team di identificare dove questi momenti di apparente disordine hanno portato a intuizioni inaspettate. Ho sperimentato che spesso quello che chiamiamo spreco è il nostro sistema immunitario organizzativo.
2. Riunioni con divieto di soluzioni (per i primi 45 minuti)
Ho visto funzionare l'idea di inserire nell'agenda aziendale momenti dedicati al "non fare". Riunioni dove l'obiettivo è stare nel problema insieme, senza pressione di risolverlo.
Dedicare 30-45 minuti ad un meeting dove nessuno può proporre soluzioni. Solo domande, solo ascolto che porta ad una comprensione più profonda delle sfide.
3. Misurare la reazione alle cattive notizie
Accanto ai KPI tradizionali, ho notato che funziona sperimentare indicatori di qualità relazionale: capacità del team di contenere l'ansia durante le crisi, frequenza di ammissione degli errori, qualità dell'ascolto nelle riunioni. Predicono meglio la resilienza a lungo termine.
Potreste provare a osservare: quanto velocemente il team ammette e corregge gli errori? Come reagisce quando arriva una notizia inaspettata? Ho sperimentato che queste non sono metriche "soft", sono predittori diretti della performance sostenibile.
4. Cercare leader che dicono "non lo so, ma stiamo qui insieme."
Ho visto che funziona cercare e formare persone che sappiano stare nell'incertezza senza fuggire verso soluzioni premature. Che trasformino la tensione in forza aggregante anziché imporre certezze. Potreste provare a prestare attenzione a chi, durante una crisi, non scappa verso la prima soluzione disponibile. Può essere utile creare spazi in cui i leader presentano problemi complessi senza soluzione chiara. L'obiettivo: definire meglio il problema, esplorarne le sfaccettature insieme.
5. Celebrare chi tiene calmo il team (non solo chi vende di più)
Le persone fanno quello per cui vengono riconosciute. Se premiamo solo i risultati immediati, otterremo comportamenti che massimizzano il breve termine.
Cosa si celebra nelle nostre riunioni mensili. Quanti riconoscimenti per risultati tecnici e quanti per capacità relazionali? Riconoscere per tre mesi chi "ha tenuto calmo il team" durante situazioni difficili porta bene e crea circoli virtuosi.
7. Coltivare i nuovi guardiani del senso
L’ascesa dell’Ai impatta su tutto e cambia radicalmente anche quello che intendiamo per leadership. Il leader tradizionale è colui che ha la soluzione, che decide, che rassicura con la sua competenza. Ma cosa succede quando le soluzioni le trova un'AI in tre secondi?
Una figura completamente diversa che potrebbe emergere: il leader come "problem holder" anziché "problem solver". Non qualcuno che risolve i problemi per gli altri, ma che legittima il problema come spazio di coesione. Che trasforma la tensione in forza aggregante.
"Non lo so, ma resteremo qui dentro insieme finché non lo capiremo." Non è vulnerabilità intesa come debolezza. È vulnerabilità strategica: la capacità di esporsi al disagio insieme agli altri, creando uno spazio di autentica co-creazione.
La scommessa finale
Tutto questo non è facile da implementare in un contesto aziendale ossessionato dalla massimizzazione immediata. Ma le aziende che prosperano negli anni di incertezza non sono quelle che hanno ottimizzato ogni processo fino all'osso. Sono quelle che hanno investito nel "tempo apparentemente sprecato" della cura relazionale.
Non è sentimentalismo. È pragmatismo evolutivo. Se il mondo è sempre più veloce e complesso, la capacità di stare insieme, senza disintegrarsi, diventerà il nostro asset più prezioso.
Quello che stiamo vivendo è una scommessa antropologica. Siamo disposti a concepire la vulnerabilità relazionale come una leva strategica? Riusciamo a vedere nel tempo "non produttivo" dedicato alla cura dei legami un investimento essenziale?
Oppure continueremo a nascondere questa necessità sotto il tappeto dell'efficienza, fino a quando il tappeto stesso non si sgretolerà?
Io non ho certezze. Ho solo l'osservazione di quello che vedo accadere nelle aziende in cui lavoro: i team che "reggono" meglio non sono quelli con le competenze tecniche più avanzate, ma quelli che hanno imparato a investire tempo e attenzione nella qualità del proprio stare insieme.
È un investimento costoso, perché sottrae risorse alla produttività immediata. È un investimento invisibile, perché i suoi risultati si vedono solo quando le cose si complicano. Ed è un investimento controcorrente, perché va contro ogni logica di ottimizzazione che abbiamo interiorizzato.
Ma è l'unico investimento che nessuna intelligenza artificiale potrà mai fare al posto nostro. Perché l'AI può replicare i nostri successi, ma non può riprodurre i nostri difetti. E sono proprio quei difetti - la nostra eterogeneità residuale - che contengono il segreto della nostra insostituibilità.
Come le imperfezioni del denim, le nostre imperfezioni umane potrebbero essere l'ultima frontiera dell'autenticità in un mondo sempre più perfetto.
Il tema che abbiamo trattato ti suona familiare?
La tua esperienza mi interessa davvero, diventa materiale prezioso per esplorare sempre di più le dinamiche di collaborazione, motivazione e gestione dei conflitti aziendali e la tua esperienza potrebbe aiutare altri.
Raccontami cosa hai vissuto, rispondo sempre.
Un abbraccio, lavorare è collaborare.
Sebastiano
PRONTI PER VEDERCI DAL VIVO A SETTEMBRE E NOVEMBRE ?
UN APPUNTAMENTO CON ME E LEONARDO MILANI SU COME LAVORARE IN TEAM “GLI ZERI CHE CONTANO “
E UN APPUNTAMENTO CON ME E CRISTIANO OTTAVIAN ALLA MASTERCLASS SULLA COLLABORAZIONE IN AZIENDA
Hai sempre degli ottimi spunti che oggi sono rari perché la gente attende. Sempre avanti cosi Sebastiano
Grande Sebastiano
La teoria proposta non fa una piega: dedicare tempo alla lentezza relazionale, alle pause, ai momenti “non ottimizzati” può essere potente.
Ma vorrei esprimere il mio umile pensiero, basato sull’esperienza concreta nelle organizzazioni.
Parlare di “conversazioni che non chiudono task”, “riunioni senza deliverable” e “presenze che non generano KPI” è affascinante.
Ma tra questa visione e la realtà aziendale di tutti i giorni, spesso c’è un abisso.
Come diceva Arnold Toynbee, “Le civiltà non muoiono per omicidio, ma per suicidio”. E aggiungeva che sopravvivono solo se sanno rispondere creativamente alle sfide.
Ecco, la sfida oggi è rispondere con concretezza, non solo con poesia.
Le idee che proponi funzionano, ma solo se c’è una condivisione reale ai vertici, una cultura organizzativa che non solo accoglie ma coltiva questo approccio.
Senza questo, sono semi lanciati sull’asfalto.
Inoltre, dobbiamo essere onesti: non tutti lavorano per passione o per “co-creare il senso”.
Come diceva l’allenatore Velásquez, “In una squadra c’è chi punta al Mondiale, e chi si accontenta della maglia pulita.”
E va bene così, basta non confondere l’inerzia con la profondità.
Quanto all’AI, non deve spaventarci: può essere una risorsa potente, un alleato.
E — permettetemi la franchezza — in certi comparti pubblici, dove si è smesso da anni di misurare il valore del lavoro e si protegge l’inefficienza con la burocrazia, l’AI sarebbe un passo avanti.
Lo dico da cittadino, non da provocatore: l’AI è più imparziale, più coerente, più presente di tanti statali che si limitano a passare il badge.
Yuval Noah Harari ricorda che “L’AI impara più dal nostro comportamento che dai nostri comandi.”
Ecco, se il nostro comportamento è deresponsabilizzato, allora l’AI ci supererà. Ma la colpa non sarà sua.
Se l’AI fa i compiti, bene.
Ma le responsabilità vere — decidere, creare contesto, dare visione — restano tutte sulle nostre spalle.
A proposito di “lavorare bene”, ho visto anche quel famoso diagramma: FARE, STARE, PENSARE.
Dove si sovrappongono, c’è scritto “lavorare bene”.
Ma spesso si:
– FA senza pensare → si corre a vuoto.
– SI STA senza fare → pause caffè travestite da cultura.
– SI PENSA senza stare → soliloqui da LinkedIn.
Il centro verde, quello in cui si lavora bene davvero, è un lusso raro.
Per trovarlo servono competenza, visione, rispetto — ma soprattutto allineamento vero al vertice.
Se manca, stiamo solo disegnando bei cerchi sul PowerPoint mentre intorno il mondo va avanti